martedì 26 marzo 2013

R’cchjitèll e C’catèll (Orecchiette e Cavatelli)








 
 
 
 

R’cchjitèll e C’catèll

(Orecchiette e cavatelli)

 

Chi di noi, da ragazzo, non ha immaginato un avvenire comunque diverso dalla vita che stava vivendo? Come tutti anche io allora ho costruito con la fantasia un mio futuro denso di possibilità. Non che abbia dei grossi rimpianti, ma come sempre poi la realtà si rivela molto più complicata di quanto uno possa immaginarsi.

Pensando a quanto è difficile oggi mettere al mondo ed educare bene dei figli, spesso mi viene da pensare a come hanno fatto i nostri genitori.

La mia famiglia, per esempio, oltre a mio padre che faceva il contadino, bracciante agricolo per l’esattezza, era composta da mia madre Giuseppina (P’pp’nèll) e poi da quattro figli di cui una femmina e tre maschi. L’unico ad avere un lavoro e nemmeno fisso, ma a giornata, era mio padre. Lui era la  forza economica della famiglia e la sua paga doveva bastare per tutto e per tutti. Non sapevo, allora, quanto invece fosse importante la “gestione delle risorse” che era il difficilissimo compito affidato a  mia madre ed in genere alle donne nelle  famiglie simile alla mia.

Una delle cose che non riuscivo a capire e che ogni volta mi creava imbarazzo, era la capacità di mia madre di “trattare” i prezzi con i venditori.

Nel mio paese, ogni martedì, lungo la via Roma si svolgeva  il “mercato”.

Ed è così ancora oggi. Ogni venditore, sotto un proprio “gazebo” espone la sua mercanzia ponendosi lungo il lato destro della strada. Tutta le gente del paese passa, osserva  la merce esposta, legge i prezzi ed approfitta per parlare con qualche conoscente che magari non vede da qualche giorno. Già perché a San Paolo è difficile non incontrarsi, ma per le donne sempre indaffarate in casa, il mercato oltre alla messa in chiesa  è uno dei pochissimi momenti di ritrovo. Momento anche per un piacevole “scambio di notizie” su tutti e tutto. “Combà a quànt a vìnn sta rròbb?”  (A quanto la vendi questa roba?) Nonostante il cartellino del prezzo fosse ben visibile, la trattativa aveva sempre questo inizio.

Quando usciva per recarsi al mercato mia madre aveva ben fisso in mente come comportarsi: Primo: acquistare solo quello che serviva e secondo cercare di spendere il meno possibile e comunque mai oltre il preventivato.

Per questo motivo, si faceva un giro di ispezione di tutti i prodotti esposti e poi in un secondo tempo, dopo aver accuratamente selezionato il venditore e la mercanzia, cominciava le trattative. Cosa importante e non secondaria: non era solo il prezzo a determinare al scelta, ma soprattutto il rapporto di fiducia che si riusciva ad instaurare tra venditore ed acquirente.

“Combà a quànt a vìnn sta rròbb?”(Compare a quanto la vendi questa?)  “Signò u vìd u prèzz sta scrìtt” (Signora il prezzo è scritto).  “Méh, mò ‘nn ‘bbijànn!  ‘Cchiù bbàsc stà u Sanzv’rés, ca vènn a cchiù pòch! ( Beh, ora non incominciare! Più giù ho visto il venditore di San Severo che vende la stessa roba a prezzo più basso).

E si iniziava un tira e molla interminabile, con delle fasi della trattativa che ogni volta si ripetevano sino allo spasimo. Mia madre diceva: “Madònn quant sì carastùs! Tu m’ha trattà ‘bbòn p’cchè jì so cliènt e fàcc spés sèmp ‘ccàda te! (Madonna quanto è caro il tuo prezzo! Mi devi trattare bene perché sono tua cliente e vengo ad acquistare sempre da te!)

Signò tu vì sèmp qua p’cchè jì tèngh a rrobba bèll e u prèzz bbòn!! (Signora tu vieni sempre da me perché lo sai che ho la roba buona ed il prezzo migliore). E si andava avanti così fino a quanto uno dei due non cedeva. Quasi sempre a cedere era il venditore preso a volte per sfinimento! Però l’obbiettivo era raggiunto. Come diceva un antico proverbio “U prìm sparàgn jè n’a bbòna spés! (Il primo risparmio è una buona spesa!)

Un altro stratagemma  per “risparmiare” o se volete per “ottimizzare le risorse” era quello utilizzato per acquistare la carne o le verdure.

Dal macellaio, terminato l’acquisto, nel mentre si tiravano fuori i soldi per pagare si usava dire: “Mèh dàmm n’òss p’u bbròd” (Dammi anche un osso per il brodo) oppure dal verduraio si chiedeva “ Mìtt n’ate ddùji frònn. Mìtt’l  p’ ddìnt, fa u bòn pìs!!!”(aggiungi ancora qualcosa, ma già compreso nel prezzo, fai un buon peso). Classici sistemi per cercare di far rendere al massimo i pochi soldi a disposizione per gli acquisti. Il vero risparmio però era quello che si riusciva ad ottenere facendo in proprio gli alimenti di base e cioè pane e pasta.

Nelle nostre case quasi tutto era di  produzione; l’olio, il vino, i legumi le verdure, la frutta….e tutto rigorosamente di stagione. Ricordo per esempio che al tempo della mia infanzia c’erano molti fornai con i relativi forni.

Una volta terminata la produzione del fornaio, questi metteva a disposizione della gente il proprio forno ed ognuno faceva cuocere quello che aveva preparato pagando un modestissimo importo.. Noi ci servivamo del forno di Mast’ Chiandèll che credo esista ancora oggi. Si trovava, credo, in Via Trieste, una strada che iniziava dall’incrocio con via Malice e portava sino alla Chiesa di San Nicola. Ricordo per esempio che mia madre preparava “a tièll” con le patate o con le melanzane ed io le portavo al forno ed aspettavo sino all’avvenuta cottura per riportarle poi a casa per il pranzo. Mi piaceva molto osservare mia madre mentre preparava il pranzo o la cena e spesso ero solito “inzuppare il pane” nei vari sughetti che di volta in volta lei faceva. E puntualmente ogni volta venivo sgridato! Aveva un modo tutto suo di preparare le melanzane (I mulagnèn o fùrn). Tagliava il picciolo che non buttava, ma utilizzava alla fine come “stùpp’l” (cioè come tappo). Con un cucchiaio svuotava le melanzane facendo attenzione a non romperle. La polpa adeguatamente asciugata, tritata  e strizzata unita a due uova, formaggio, olio e pane grattugiato serviva per comporre il ripieno. Poi adagiate dritte  in un tegame, io le portavo al forno dove cuocevano per circa quaranta minuti. Ma, mia madre era insuperabile quando faceva a mano “i r’cch’jitèll” o  “ i c’catèll”. Era un rito!

Posava sull’asciugapanni “ u tav’lér”  (la spianatoia) e preparava l’impasto con mezzo chilo di farina di semola ed acqua. Con metodo molto personale creava un buco al centro della farina ammucchiata e vi versava lentamente dell’acqua. In questo modo formava l’impasto che lavorava per circa una decina di minuti. Poi, ricoperto da un panno lo lasciava riposare.

Dopo circa una mezz’ora, tagliava un pezzo di pasta che lavorava sulla spianatoia cosparsa di farina. Formava come un serpentello lungo di pasta dello spessore di un dito. Da questo poi, con coltello liscio e dalla punta arrotondata tagliava dei dadini. Per fare una orecchietta doc la tecnica è questa (almeno questa usava la mia mamma): con la punta del coltello tra indice e pollice della mano destra posizionarsi al centro circa del dadino di pasta, quindi, aiutandosi anche con l’indice della mano sinistra “strascinare” la pasta. Quindi rovesciare la “conchiglietta” formatasi girandola a mo’ di cappello sul dito pollice. In questo modo  si ottiene una orecchietta perfetta che riporta addirittura le venature in cui verrà catturato il sugo. L’orecchietta così formata va  depositata sopra “a spasèll” (una spianata di vimini) e lasciata riposare ad asciugarsi per l’intera notte.

Allo stesso modo vengono fatti “i c’catèll”, la differenza sta nel fatto che il dadino di pasta viene “strascinato” appoggiandovi sopra l’indice ed il medio.

In conclusione posso affermare senza tema di smentita che se è vero che era  l’uomo a portare in  casa il salario, altrettanto vero era che  la sapiente gestione della donna sapeva valorizzarlo al massimo. E, cosa non secondaria, il “mestiere di casalinga” mai apprezzato a sufficienza, forniva all’economia familiare un apporto di genuina manualità e di valori che col tempo  sono diventati sempre più rari fino ad essere oggi quasi introvabili. 

 

martedì 19 febbraio 2013

LA MIETITURA




La mietitura

In un paese a chiara connotazione agricola, i tempi del  vivere quotidiano sono scanditi dalle stagioni e dalle lavorazioni che si effettuano nei campi.

Vi è il tempo della semina e il tempo del raccolto. In mezzo,  tutta una lunga serie di lavori per rendere il raccolto il più proficuo possibile.

La cosa più importante però è che nella vita contadina anche il lavoro può diventare occasione per stare insieme. Due i momenti fondamentali del raccolto: La vendemmia in autunno, di cui ho già scritto, e la mietitura in estate nei mesi tra giugno e luglio.

Tempo fa, i terreni dietro la villa comunale erano distese enormi di seminato a grano. E all’imbiondire delle spighe, i campi si tingevano di giallo punteggiati dal rosso dei papaveri. Quando arrivava il periodo di maturazione si doveva procedere alla mietitura.

Erano gli anni in cui non esisteva ancora la “mietitrebbiatrice”, quella macchina cioè capace di provvedere da sola, e con un unico passaggio, a tagliare le spighe, pulirle e restituire il grano già nei sacchi.

Il grano veniva mietuto a mano e poi “trebbiato” con un particolare procedimento usando la “trebbiatrice”.

Siccome però tutto il lavoro non si esauriva in una unica giornata per l’estensione del terreno da mietere e siccome gli appezzamenti potevano appartenere a più proprietari, non di rado capitava che più famiglie unissero le proprie forze a quelle dei braccianti assunti allo scopo – “ i jurnatér” ( quelli a giornata). C’erano famiglie proprietarie del terreno, altre che lo avevano in affitto ed infine coloro che lo avevano “a mèzza trìji” ( al 50%). Si riusciva così a formare uno squadrone di persone ognuno con il proprio compito preciso. C’erano i mietitori veri e propri – i m’t'tùr - ; c’era poi chi aveva il compito di legare in “manòcchij” (covoni) le spighe tagliate; chi doveva raccogliere “i manòcchij”  sui traìni  e portarli in un punto prestabilito dove veniva messa in piano la trebbiatrice. Altri si occupavano di scaricare “i manòcchji” con “i fòrch” (le forche) e instradarli nel nastro trasportatore per essere trebbiate.

Ma cominciamo dall’inizio!

In quei giorni ci si alzava di buon ora. Con la luna alta, anche la notte era illuminata ed era preferibile lavorare con il fresco della notte piuttosto che con il sole di luglio. La preparazione avveniva già dal giorno che precedeva l’inizio  dei lavori. I mietitori  tiravano fuori le falci precedentemente fatte affilare da “u ’mmòlafruv’c” (l’arrotino), i proprietari dei traìni  controllavano bene “ a mart’llìn” ( il freno) e “a lantèrn a p’trolij” ( la lanterna) e “u scurièt” (la frusta).

La processione dei carri con la gente a bordo iniziava molto prima dell’alba. Giunti sul luogo ognuno prendeva posizione. I mietitori, con la falce affilata nella mano destra, si disponevano in riga all’inizio del campo. La mano sinistra, con le dita protette da anelli di canna forati e l’avambraccio protetto da una ricopertura in cuoio, veniva adoperata per abbracciare il fascio di spighe da tagliare. Gli uomini indossavano pantaloni lunghi e scarponi, mentre le donne indossavano scarpe pesanti e spesse calze per proteggersi dai graffi delle “r’stòcc” (stoppie). Graffi (ràng'ch) di cui erano piene le gambe dei ragazzotti come me (còss tutt rang'chèt), con i “cav’zùn cùrt” (calzoni corti) il cui compito era quello di “pròji u cic’n d’ l’àcqu” (portare l’acqua) oppure “a damm’ggianètt d’ vìn” la damigiana da cinque litri con il vino e di riempire di paglia, alla bisogna,  “ a sacchètt” (sacchetto) appeso al collo dei muli o dei cavalli. Entrambe le bevande dovevano essere poi riposte in luogo protetto per mantenerle fresche. I momenti di pausa, durante la giornata, erano tre. C’era una prima colazione – U rompadd’jùn – (rompi digiuno)  fatta con il pane avvolto in una “tuvàgghij” bianca  oppure a pallini colorati di cotone. Pomodoro, formaggio, e cipolla erano il companatico. Tutto innaffiato con vino rosso. A mezzogiorno si pranzava con gli stessi alimenti ed in più si faceva un’insalata di pomodori oppure si faceva “l’acquasèl” cioè pane duro bagnato in acqua cosparso con olio, pomodori sale ed origano. Infine la cena che in più aveva per primo la pastasciutta.

Iniziavano i mietitori che tagliavano i primi fasci di spighe e  le poggiavano per terra. Seguivano coloro che, raccolti più fasci di spighe, li legavano insieme a formare “i manòcchji” e li ponevano per terra con le spighe rivolte verso l’alto. Questo in genere era il compito delle donne. Quando il grano tagliato cominciava ad avere una certa consistenza, entravano in azione quelli armati di carretti e forche, che caricavano “i manòcchji”  “ sòp i carr’ttùn” e li portavano in uno spiazzo a formare “i mét”  cioè dei grandi ammassi circolari pronti per essere trebbiati. Terminata la mietitura dei campi, se la trebbiatrice era già stata posizionata, si procedeva a trebbiare il grano, altrimenti si doveva aspettare qualche giorno ed in quel caso il grano era “uàrdèt nòtt e jùrn”  ( guardato notte e giorno).

Intanto nei campi iniziava la “spigolatura” . Le donne procedevano ripassando tutti i campi e raccogliendo manualmente le poche spighe rimaste a terra o non tagliate. Questa operazione molto spesso veniva fatta da donne che non avevano terreni propri e che in questo modo potevano alleviare la situazione di indigenza in cui versavano. Spessissimo anche noi ragazzotti eravamo interessati a questa raccolta -   “cciapp’rijà” – perché ci permetteva di guadagnare qualche spicciolo. Il lavoro della mietitura era in realtà molto pesante in quanto si doveva procedere sempre in posizione china, sotto il sole cocente coperti da abbigliamento non propriamente estivo. Il sudore spesso misto alle pagliuzze di grano rendeva particolarmente sgradevole e fastidioso questo mestiere. Ma comunque era un’occasione per stuzzicarsi, cantare, spettegolare e far nascere amori. In tutte queste cose le donne erano bravissime e molto spesso intonavano canzoni, a cui cambiando le parole, facevano raccontare cose accadute o prossime ad accadere.

La fase successiva era la trebbiatura. La trebbiatrice era un macchinario molto complesso. La ricordo di colore rosso fuoco. Da una parte in alto vi era un grosso foro dal cui contorno pendeva una sorta di larga manica di stoffa: da qui usciva la paglia residua. In basso c’era una “bocca” attraverso cui passava il grano che veniva raccolto in sacchi di canapa o di juta. Dalla parte opposta e a debita distanza veniva posto un “motore” che con un giogo di cinghie e pulegge trasferiva il moto alla trebbiatrice. Il tutto doveva essere perfettamente in piano e ben livellato. La presenza di un meccanico metteva al riparo da possibili guasti degli apparecchi. Quando tutto era pronto si procedeva. Avviato il motore e messe in movimento le cinghie e le pulegge, i covoni di grano, con le forche, venivano manualmente caricati dalle “mét” su di un nastro autotrasportatore che le introduceva nella trebbiatrice, la quale con un rumore assordante procedeva alla divisione dei chicchi di grano dalla paglia. I chicchi, a “tùmm’l” ( misura di circa 45 kg), venivano depositati in dei sacchi di canapa o di iuta legati, quando pieni, con “i làcc d’ mach’n” (lacci). I sacchi così riempiti e legati venivano pesati sulla “ a bbascùglij”  ( la bascula). La paglia dispersa sullo spiazzo veniva raccolta da persone che utilizzavano un attrezzo definito “a mar’nèr”. Era cioè un attrezzo formato da una trave lunga circa un metro e mezzo- due, con due anelli ai bordi e dei pioli centrali tipo un pettine. Veniva legato al collo di un cavallo ed un operaio, ponendosi sopra l’asse, si faceva trainare per il piazzale radunando così la paglia dispersa in un punto preciso deve poi venivano confezionate le “balle”. Terminato il lavoro, ci si ritrovava tutti insieme nello spiazzo ed il proprietario ( o i proprietari)  stabiliva una serata durante la quale si sarebbe festeggiato cenando tutti insieme tra canti e balli – u chèp canèl - . Di rito si cucinava la pasta al forno (a sàgn) ed un secondo con arrosto di agnello ed insalata. Vino rosso a volontà!

L’operazione che chiudeva la mietitura avveniva con la bruciatura delle stoppie. Pratica in seguito vietata a causa dell’alta pericolosità e dell’alto rischio di propagazione degli  incendi.

Oggi tutte queste fasi vengono effettuate da un unico macchinario che richiede la presenza di pochissimo personale. Vero è che molta della fatica umana è stata sostituita dalla macchina, ma è altrettanto vero che è andata a morire un’altra opportunità per lavorare ,  aiutarsi  e stare insieme. Ben venga il progresso quindi, ma solo se serve a liberarci e ad offrirci più tempo per stare con noi stessi e per aumentare le occasioni per vivere in comunità.

martedì 5 febbraio 2013

AGENDA MICHELE 14 PUNTI PER UNA ITALIA NUOVA

 

L’AGENDA MICHELE IN 14 PUNTI

 1)     FISCALITA’:
  • Detrazione di tutte le spese documentabili
  • Irpef al 75% sui redditi da un milione di euro.
  • 45% per i redditi da 70.000 euro a 200 mila euro
  • 49% per redditi da 200 mila euro
  • Contribuzione del 60% per i capitali scudati
  • Lotta all’evasione anche mediante impiego delle forze armate.
  • Ripristino del reato di “falso in bilancio”.
  • Ripristino dell’albo clienti-fornitori per le imprese.
  • Tracciabilità per i pagamenti delle imprese a partire da 300 euro.
  • Abbassare la pressione fiscale per i redditi medi e bassi di tutti i lavoratori, autonomi e dipendenti
  • Aumento delle imposizioni sulle transazioni finanziare.
  • Tassare del 23% le rendite finanziarie
  • Tassare del 5% i diritti televisivi.
  • Tassare del 5% gli utili del comparto pubblicitario.
  • Rimodulare la tassa automobilistica in base all’emissione di anidride carbonica.
  • Eliminare l’IMU sulle prime case con rendita catastale fino a 2000 mila euro.
  • IMU al 10% su case con rendita catastale superiore a 2000 mila euro.
  • IMU al 20% per quelle di valore superiore al milione di euro.
  • Aumentare al 20% l’IMU su ville di pregio e castelli
  • Introdurre tassazione del 10% sugli utili delle imprese del settore del lusso.
  • Dimezzare le addizionali Comunale e Regionale per i redditi entro i 20.000 euro
  • Raddoppio per redditi superiori a 80.000 euro.
  • Recuperare i 98 miliardi di euro evasi dalle società di slot machines
2)   RISORSE ED ENERGIA:
  • Progressivo passaggio a fonti di energia rinnovabili mediante il ricorso alla FISCALITA’ AMBIENTALE che favorisca produzioni a basso impatto ambientale e penalizzi industrie energivore. Nello specifico:
  • Ridurre del 10% il consumo energetico negli edifici pubblici con  eliminazione di sprechi e miglioramenti strutturali.
  • Eliminare gli incentivi alla combustione dei rifiuti.
  • Raddoppiare, per le imprese distributrici, la quota di risparmio energetico
  • Eliminare l’IVA sull’installazione del solare termico
  • Detrazione dai redditi delle spese sostenute per l’installazione dei pannelli solari e per la produzione di acqua calda
  • Estendere i benefici del conto energia a tutte le forme di energia prodotta con fondi rinnovabili.
  • Divieto di produzione e vendita  di motori elettrici a bassa efficienza energetica e dei frigoriferi di classe B
  • Incentivare l’installazione di impianti fotovoltaici
3)     TERRITORIO:
  • Messa in sicurezza del territorio
  • No alle grandi opere (Tav Val di Susa 22 miliardi, Ponte Messina 4, Gronda Genova 6, ecc.)
     ed al consumo di territorio.
  • No agli inceneritori ed ai termovalorizzatori.
  • Incentivi alla diminuzione degli imballaggi e promozione della cultura del riuso.
  • Attuazione di un piano sostenibile di ritiro differenziato, riciclo e smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
  • Riaffermare l’acqua bene comune e sottrarla alle logiche del profitto.
  • Incentivare la riduzione degli sprechi di acqua.
  • Aumentare i canoni di sfruttamento delle sorgenti legandolo alla quantità di acqua imbottigliata.
  • Ristabilire il Fondo per la ristrutturazione e l’ammodernamento della rete idrica
4)     RAPPORTI INTERNAZIONALI:
  • Ritiro da tutte le missioni all’estero.
  • Abbandonare la costruzione dei 90 cacciabombardieri, dei quattro sommergibili e delle 2 fregate.
  • Riduzione  del 50% delle spese militari.
  • Uscire dalla Nato e costituire il Consiglio  Europeo per la Sicurezza  che rifiuti ogni ingerenza nelle questioni interne dei paesi e che rifiuti il ricorso alla guerra.
  • Riconvertire le produzioni militari in civili
  • Impiegare le forze armate dello Stato per attività civili
5)     LAVORO:
  • Abolizione della legge 30 del 2003 e del successivo d.lgs 276/03.
  • Credito di imposta per le imprese che stabilizzano a tempo indeterminato i precari e i lavoratori a tempo determinato
  • Riduzione dell’orario di lavoro;
  • Creare nuovo lavoro nella manutenzione del territorio.
  • No a nuovi centri commerciali mediante incentivazione pubblica al consumo a km 0 ed alla filiera corta.
  • Introduzione del Reddito Minimo Garantito.
  • Tassare il lavoro interinale
  • Garantire il sussidio di disoccupazione
  • Favorire e finanziare la piccola imprenditoria locale
  • Adottare il software libero nella Pubblica Amministrazione.
  • Promuovere e favorire le nuove forme di economia ( Distretti di economia solidale; Gruppi di acquisto solidale; Orti urbani; Finanza Etica; Agricoltura biologica)
  • Inserire i prodotti “fair trade” negli appalti pubblici.
  • Favorire il lavoro a distanza
  • Sostenere le società “no profit”
  • Penalizzare le Aziende e le produzioni a forte impatto ambientale e che generano  danno sociale
6)     LEGALITA’:
  • Lotta senza quartiere alla criminalità organizzata anche mediante utilizzo delle Forze Armate.
  • Istituire una  Agenzia per i beni confiscati.
  • Rendere obbligatoria la denuncia per il reato di estorsione.
  • Pene certe e più severe per i reati di mafia estorsione ed usura.
  • Perseguire più incisivamente il reato di voto di scambio;
  • Istituire il reato di autoriciclaggio.
  • Fornire alla Giustizia più risorse e mezzi anche mediante la riorganizzazione di tribunali e procure, con l’obbiettivo di ridurre notevolmente i tempi della conclusione dei processi. Rendere assolutamente incompatibili incarichi di governo a qualsiasi livello con impieghi pubblici o privati o con attività professionali.
7)     BANCHE:
  • Impedire in modo assoluto i rapporti tra banche europee e paradisi fiscali
  • Riportare a proprietà e gestione pubblica la Cassa Depositi e Prestiti e la Banca d’Italia.
  • Abolizioni di cariche multiple nei consigli di società quotate in borsa
  • Impedire gli intrecci azionari tra Banche e Società
  • Rendere effettiva la partecipazione dei piccoli azionisti
  • Rendere corresponsabili gli Istituti Finanziari nelle perdite generate dai prodotti proposti
  • Introduzione di un tetto massimo di stipendio del management delle Aziende
  • Eliminazione delle Stock Option
  • Abolizioni dei Monopoli e delle Posizioni dominanti di mercato
8)     DEBITO PUBBLICO:
  • Censire i possessori del debito garantendo con l’intervento dello Stato solo le quote di debito detenute dalla famiglie (risparmi  privati investiti in BOT o altri titoli di Stato).
  • Rifiutare ogni forma di variazione della Costituzione tesa a garantire le banche ed il mondo finanziario. (Pareggio di Bilancio).
9)     ISTRUZIONE:
  • Messa in sicurezza e ristrutturazione delle strutture scolastiche.
  • Ritorno ad un  sistema di istruzione teso alla formazione di “coscienze civiche” e di cittadini e non solo di “forza lavoro”.
  • Potenziare l’autonomia scolastica
  • Aumentare i fondi per il diritto allo studio e portare a 16 anni l’obbligo di istruzione ed integrazione
  • Sostenere l’Università pubblica.
  • Rifinanziare il diritto alle borse di studio
  • Aumentare le disponibilità di alloggi universitari anche mediante nuova edilizia scolastica.
  • Nessun finanziamento alla scuola privata.
  • Istituire nuovi percorsi di formazione ai “media” a partire della scuola primaria.
10)   MEDIA:
  • Accesso gratuito alla rete. Copertura ADSL su tutto il territorio
  • Introduzione dei ripetitori WIMAX
  • Allineamento all’Europa delle tariffe di connessione Internet
  • Abolizione del finanziamento pubblico alle testate giornalistiche.
  • Definire norme precise contro i “trust” ed i conflitti di interesse.
  • Difesa del servizio pubblico reso indipendente dalla politica.
  • Attribuire le frequenze televisive  mediante asta pubblica rinnovabile.
  • Abolizione  totale della pubblicità su un canale pubblico e limitazione mediante norme che stabiliscano tetti massimi di pubblicità su tutti gli altri canali, pubblici e privati.
  • Vietare la pubblicità in fasce orarie protette, dedicate ai bambini.
  • Abolizione della Legge Gasparri
11)   RICERCA SCIENTIFICA:
  • Incentivare la ricerca scientifica di base stanziando fondi per i filoni applicativi che contribuiscano alla riconversione ecologica delle industrie, alla decrescita degli sprechi e del fabbisogno energetico.
  • Concedere ulteriore credito di imposta a chi assume ricercatori.
12)  DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE:
  • Abolizione delle Provincie; Dei rimborsi elettorali
  • Adottare il “BILANCIO PARTECIPATO” nei Comuni.
  • Attivare a tutti i livelli i referendum propositivi ed abrogativi.
  • Rendere obbligatoria la discussione delle leggi di iniziativa popolare entro tre mesi dalla presentazione e pubblicare on-line tre mesi prima dell’approvazione i testi definitivi aperti alle osservazioni dei cittadini.
  • Accorpare i Comuni con meno di 5000 abitanti.
  • Ridurre a due mandati le elezioni per i parlamentari e per ogni altra carica pubblica.
  • Divieto esercitare altra professione o di cumulare cariche  durante il mandato.
  • Ineleggibilità per i cittadini condannat
  • Abolire le Autority ed istituire la Class Action.
  • Eliminare totalmente i conflitti di interessi tra enti pubblici ed imprese private.
  • Ogni impresa controllata e/o partecipata da Enti locale dovrà trasformarsi in Agenzia pubblica.
  • Accesso in totale trasparenza a tutti i dati inerenti contratti, compensi, incarichi, consulenze ed appalti assegnati dallo Stato o da qualsiasi altro ente pubblico.
  • Dimezzare il numero dei Parlamentari.
  • Compenso parificato alle retribuzioni medie nazionali
  • Eliminazione di  qualsivoglia “privilegio” o vitalizio connesso ad incarichi elettivi. 
  • Abolizione delle doppie e triple pensioni
  • Tetto massimo per ogni pensione di 5.000 euro lorde al mese
  • Nessuna forma di finanziamento pubblico né a partiti né a giornali. I partiti e le organizzazioni politiche potranno finanziarsi tramite “tesseramento” e finanziamenti privati dichiarati in bilancio.
  • Eliminare ogni buonuscita per incarichi pubblici
  • Modifica della legge elettorale
13)  TRASPORTI:
  • Promozionare il trasporto pubblico mediante impiego del treno anche per il trasporto merci.
  • Potenziare le linee locali di collegamento con lo sviluppo di ferrovie locali per i pendolari.
  • Favorire e d incentivare la mobilità urbana sostenibile (piste ciclabili, car sharing, taxi collettivi,)
  • Rilanciare i servizi integrati di metropolitana e ferrovie
  • Disincentivare l’uso dell’auto privata.  
  • Chiusura dei centri storici mediante potenziamento del trasporto pubblico.
  • Ripensare il concetto di città. Il territorio non è “merce” da consumare ma luogo di incontro, socializzazione e come tale va usato per favorire l’incontro tra persone anche mediante arredo urbano e valorizzazione della bellezza architettonica.
14)  WELFARE:
  • Istituire i “livelli minimi di assistenza” gratuita  e garantita per tutti e sotto i quali non si deve mai scendere.
  • Potenziare i servizi alle famiglie costruendo asili nido.
  • Incrementare i servizi per i non autosufficienti.
  • Ripotenziare il fondo sociale per l’affitto per  le classi a basso reddito.
  • Finanziamento in ogni regione dei Centri Antiviolenza
  • Potenziare i servizio sanitario pubblico aumentando i servizi di base e rendendoli accessibili sul territorio.
  • Abolizione dei  finanziamenti  agli ospedali privati
  • Ripristino delle USL  che non agiscano con fini aziendalistiche di profitto.
  • Eliminare i Centri di Identificazione ed Espulsione
  • Abilitare corsi gratuiti della Lingua Italiana e favorire l’inserimento scolastico dei bambini stranieri
  • Istituire Centri di Aggregazione Giovanili Policulturali
  • Risanare  le strutture penitenziarie e favorire misure di detenzione alternativa mediante finanziamento di borse di lavoro.








 

 
 
 
 

A Passatèll!!

 

A Passatèll

Le giornate in campagna sembravano interminabili. Si cominciava al mattino prestissimo, quando il sole non era ancora sorto. Nelle notti di luna piena, addirittura, si poteva iniziare anche a notte fonda poiché la luna illuminava a giorno la notte. Si agiva in questo modo anche perché verso mezzogiorno o quando il sole cominciava a scottare, bisognava ritirarsi sotto un albero oppure all’ombra della casetta costruita per riporre gli attrezzi. Infatti era molto pericoloso esporsi ai raggi cocenti nelle ore della “controra” in quanto per il forte calore ed il vento di “faugno” si rischiavano insolazioni o perdite del respiro. Questa forzata siesta poteva durare anche fino alle ore sedici. Se allora il sole aveva attenuato la sua forza, si riprendeva il lavoro sino alle 18,30. Stiamo ovviamente parlando del periodo estivo in quanto con l’autunno o l’inverno le cose cambiavano radicalmente. La vita del “bracciante agricolo” aveva giorni e ritmi molto ben scanditi per cinque giorni la settimana. Alla sera del sabato però, finalmente la possibilità di spezzare la monotonia degli altri giorni.

Terminati i lavori in campagna, si tornava a casa di buona lena e dopo essersi lavati e sbarbati, smessi i panni da lavoro  ed indossati quelli della imminente domenica, prima dell’ora di cena, si usciva in piazza. La scusa era quella di andare a cercarsi il lavoro per la settimana successiva, la realtà come vedremo era ben diversa.

Nei nostri paesi del sud la piazza è sempre stato il luogo dove si concentravano le operazioni più importanti della vita locale. In piazza si definivano compravendite con semplici strette di mano scambiate davanti ad un buon bicchiere di vino. In piazza si definivano contratti di lavoro e paghe giornaliere. In piazza si risolvevano eventuali contese ed addirittura si definivano promesse di fidanzamenti e di matrimoni.

La piazza di San Paolo di Civitate, ancora oggi, è un lungo rettangolo attraversato dalla SS 16, una lunghissima arteria che attraversa tutta la Daunia e si spegne nel barese. Quasi al centro della piazza, ad angolo con la farmacia, parte una stradina in basolato che porta alla Chiesa di San Nicola ed oltre. Percorrendo questa strada, a circa un centinaio di metri dalla piazza, all’altezza dell’Arco della Pescheria, sul marciapiede opposto, anni fa era localizzata una cantina. Non era semplicemente un locale dove si vendeva o si consumava vino. Credo fosse l’unico posto, dopo i caffè, dove la gente poteva riunirsi e discutere davanti ad un boccale di vino. Era ritenuto un luogo “malfamato” dal parroco, ma soprattutto dalle mogli in quanto i frequentatori erano immediatamente additati come “ubriaconi”. Credo lo si possa definire un “pub” ante litteram in quanto dalle attigue “chiànghe” (macellerie) si poteva acquistare carne arrostita e torcinelli che poi venivano consumati nella cantina la quale  forniva anche il pane oltre al vino. Il posto in verità era snobbato dai notabili del paese ed era frequentato soprattutto dalla gente semplice che passava qualche ora in sana compagnia. Non appena si entrava nel locale si veniva investiti da un acre sapore di vino e di arrosto. Dense nuvole bluastre di nicotina  penetravano nei polmoni attraverso le narici e gli abiti si impregnavano di strani odori di fumo e di fritto. Eppure il locale, nonostante gli anatemi del parroco, era molto frequentato. C’era il musicista con la chitarra che canticchiava le canzoni dialettali di Matteo Salvatore e c’era il “sempliciotto” del paese che era oggetto di bonarie prese in giro da parte di tutti.

“ Andò, jànn a qua. Va da V’liàmm u chianghér, fàtt da mèzz chìl d’  ‘nd’rtén”. ( Antonio, vieni qua. Vai da William il macellaio e fatti dare mezzo chilo di “intrattieni”). Il poveretto che andava di corsa guadagnava anche qualche improperio dal macellaio che era sempre indaffarato. E la cosa finiva con una risata ed una bevuta. Oppure quando un nuovo arrivato, nell’atto di sedersi al tavolo diceva ai commensali: “Vèngh jùst mò da altròv…. ‘llà stà sciuccàn.  Andò va, va vìd pur tu” (Arrivo proprio adesso da “altrove” …la sta nevicando. – siamo in piena estate – Antonio vai , vai a vedere pure tu”) e  Antonio rispondeva  “ Jì ‘nnù mànch sàcc ndò  jè altròv” (Non lo so dov’è altrove). C’era chi giocava alla “morra” un vecchio gioco dove due persone mostrando il pugno devono indovinare il numero – da due a dieci - somma dei due numeri che ognuno di loro estrae improvvisamente dal pugno mostrando le proprie dita e gridando ad alta voce il numero somma. Ogni volta che uno indovinava, segnava un punto e procedeva a tracannare un bicchiere di vino.

Ma alla cantina si andava soprattutto in gruppo quando si decideva di giocare alla “passatella”.

E’ questo un antichissimo gioco che trova addirittura le origini nella Roma latina. Sembra che ne parlino addirittura Catone ed Orazio narrando del  “rex vini”.  Per come è strutturato e per come si svolge il gioco, risulta evidente che se non lo si prende con lo spirito giusto, può diventare una occasione di violenti scontri. La tradizione narra di moltissime amicizie rotte e violenti liti terminate drammaticamente a coltellate. Forse è per questo che, lentamente, questo gioco è andato scomparendo. Fatto con le regole precise e con la giusta predisposizione può far trascorrere una serata in piacevole ed allegra compagnia. Ovviamente non per tutti. Pur non essendo neppure oggi un frequentatore abituale di cantine osterie o pub, ho visto alcune volte come veniva praticato. Innanzi tutto ci si riuniva in comitiva. Più si era, meglio riusciva il gioco. Si decideva quanto vino e quanta carne e pane  acquistare dividendo la spesa equamente tra tutti i partecipanti. Lo scopo del gioco è quello di fare in modo che si creino due situazioni: qualcuno dovrà rimanere

“iùlm” cioè potrà solo mangiare ma non berrà mai; un altro invece alla fine avrà bevuto tanto che risulterà ubriaco fradicio. Questo succede perché non ci si  può rifiutare di bere. Sembra un gioco banalmente semplice, ma non è così.  Quando tutto era pronto ed ognuno dei commensali aveva preso posto attorno al tavolo rigorosamente in legno ricoperto da un telo di “incerata” allora si dava inizio al gioco. Si cominciava sorteggiando “il mazziere” il quale a seconda del numero dei giocatori distribuiva le carte. A San Paolo le carte erano rigorosamente “le napoletane”. Quindi si confrontava il punteggio ottenuto. I punti delle carte erano quelli della “primiera”. Tutte le figure avevano valore dieci, il 7 valeva ventuno; il 6 valeva 18; l’asso valeva sedici, poi di seguito il 5 quindici, il 4 quattordici e così per il 3 e per il 2. Ovviamente il punto più altro era “ u frùsc” cioè avere tutte le carte dello stesso colore o seme. Seguiva la “primiera” cioè avere le carte tutte di colore o seme diverso. Infine il mazziere stabiliva una carta precisa e chi la possedeva assumeva il ruolo della “morte”. La morte rimaneva in incognito sino a quanto non decideva di palesarsi.

Il punto più alto assumeva la figura di “padrone”. Il secondo punto più alto diventava “il sotto”. Definite queste figure iniziava il gioco vero e proprio.

Il Padrone versava il primo bicchiere di vino e lo offriva al mazziere che bevendolo terminava la sua funzione. Il secondo ed il terzo bicchiere erano destinati al Padrone ed al Sotto che, in questo modo, affermavano la loro autorità. Ricordiamo che la bevuta doveva essere effettuata d’un solo fiato. Non poteva cioè essere interrotta, pena il pagamento totale del vino da consumare. Dopo questi primi bicchieri, il padrone ne versava uno e diceva “Stù ‘bbucchér d’ vìn, u vulèss da a ‘Gg’nìll” (Questo bicchiere di vino, vorrei offrirlo a Gino). A questo punto Gino prendeva il bicchiere e rivolgendosi al Sotto chiedeva: “ Ch’ ‘ll’cènz! Pòzz vév?” (con vostra licenza. Posso bere?). Se il Sotto acconsentiva e la Morte non interveniva palesandosi, allora Gino poteva bere. Il gioco era tutto basato sulla dialettica, su ammiccamenti e segreti intese tra Padrone, Sotto e la Morte. Per esempio se il Padrone avesse detto “Stù ‘bbucchér, u vulèss da a ‘Ndonij” senza aggiungere “d’ vìn” intendendo così di dare ad Antonio il bicchiere, ma non il vino in esso contenuto. Se con il consenso del Sotto ed il tacito assenso della Morte, Antonio avesse bevuto, avrebbe commesso grave infrazione ed era destinato a pagare tutto il vino da consumare in quanto era stato assegnato il bicchiere e non il vino in esso contenuto. Oppure all’offerta del Padrone, quando il giocatore chiedeva al sotto “licenza di bere” , il Sotto poteva dire: “ puoi annusarlo, guardarlo, ma non puoi berlo; Devi poi passarlo a Tizio”.  Poteva inoltre capitare che il Sotto non condividesse l’assegnazione fatta dal Padrone. A quel punto era costretto a bere lui il bicchiere di vino oppure ad assegnarlo ad un altro giocatore.  A meno che non intervenisse la Morte. La Morte ha l’autorità di togliere la bevuta a chiunque, tranne  al Padrone ed al mazziere,  e di fare proprio il bicchiere in palio. Regola fondamentale è quella di esprimere chiaramente ed a voce alta la propria affermazione, domanda o risposta. Il gioco procedeva così tra assegnazioni, bevute, assensi e dinieghi. La casistica di quanto poteva accadere era veramente indefinita. Esaurito tutto il vino,  il gioco terminava. Inevitabilmente si riscontava un giocatore che non aveva bevuto nulla che si diceva  “ è stèt fatt iulm” ( era stato fatto olmo). Nessuno sa con precisione da cosa è stato originato questa espressione. Sta di fatto che chi veniva fatto “iùlm” era colui che non aveva bevuto nulla durante tutto il gioco. E questo era un grave affronto oltre che una enorme cattiveria in quanto il mangiare salato e pepato  della serata rendeva ancora più insopportabile l’affronto. D’altro canto vi era sempre qualche giocatore che finiva ubriaco fradicio per il troppo bere. Ed anche questo era un affronto in quanto il malcapitato veniva portato a casa di peso e spesso stava male anche per i successivi giorni oltre a prendersi le urla della moglie. Comunque tutto finiva così senza alcun astio, ma con la semplice promessa di vendicarsi in successive passatelle. Molti anni dopo, negli anni del mio liceo a Bari, capitò anche a me di partecipare al gioco. Questa volta era fatto con la birra e aveva nome “ u z’mbarìdd”.